Debutto napoletano per i due nuovi spettacoli di Antonio Latella, Don Chisciotte, su drammaturgia di Federico Bellini, e [H] L-Dopa, su drammaturgia di Linda Dalisi, speculari nell’indagine del rapporto tra letteratura e malattia. Le due sale del Teatro Nuovo, che dall’anno prossimo sarà guidato da Latella in veste di direttore artistico, hanno accolto in simultanea i lavori, scritture originali concepite come emicicli di un solo tragitto drammaturgico, che danno vita a due messe in scena stilisticamente differenti, ma contigue nel tracciato del senso. Abbiamo chiesto a Latella di questa sua nuova avventura teatrale.
Due spettacoli per rappresentare il nesso circolare tra letteratura e malattia, un percorso drammaturgico intenso.
Per me è come un diario privato, e tuttavia sono molto sereno. Il legame tra i due spettacoli è forte; e il progetto è in relazione anche al lavoro che ho fatto su Winkler e su Kafka, che di letteratura ne “muore”.
La malattia non è solo un dato clinico, ma anche morbo dello spirito, come suggerisce il potente finale di Don Chisciotte.
È una malattia indubbiamente dell’anima, quando sei sempre nel posto sbagliato. Ma si può accettare che la vita stessa sia malattia, un regalo meraviglioso ma anche una malattia, col suo decorso e i suoi tempi.
La letteratura allora non è solo una necessità “kafkiana”, ma anche un vero e proprio antidolorifico.
Sì, per l’impossibilità di accettare il quotidiano diventa lo strumento per fuggire dai piccoli turbamenti che nella percezione diventano insostenibili. La letteratura come «alter lego».
A chi racconta il teatro oggi, in una civiltà saturata dall’immagine?
Chi sceglie di andare a teatro vuol nutrirsi di parole. Un problema che si avverte in Italia è che a volte il teatro viene percepito come un fatto elitario, di status: vado a teatro dunque sono. Il teatro dovrebbe esser considerato piuttosto come un nutrimento indispensabile dell’anima.
Ti riferisci dunque a un teatro necessariamente civile.
Per me il teatro è quello, ed è solo così che io lo intendo. Bisognerebbe che in Italia si condividesse l’idea che la cultura dev’essere la bandiera civile. Questo oggi ci mette nella condizione di provare a fare qualcosa di più, di spingere verso un teatro fatto da chi ne sente davvero il bisogno. Chi urla che il teatro è morto dovrebbe lasciar spazio a chi crede che il teatro è vivo.
Il teatro morto è quello che somiglia alla televisione.
Sì, un luogo senza identità. Ma sarebbe più giusto dire che semmai è morto un certo modo di fare teatro. Altrove il teatro è “teatro del popolo”, cioè luogo vivo: è questa l’esperienza che ricavo se vado a teatro in altri paesi d’Europa. Il teatro tedesco, ad esempio, non ha mai perso il suo rapporto col proletariato.
Tu sei passato da un teatro essenzialmente di parola come la trilogia di Pasolini a un teatro di pura fisicità come la meravigliosa Medea, dove la parola è un elemento secondario. Dunque non hai un’idea univoca di ciò che vuol dire “testo”.
A me piace pensare che drammaturgia è tutto. Qualsiasi elemento, la parola e il gesto, la luce, ma anche un tessuto, un colore, il movimento di una mano, possono richiedere una sedimentazione lunghissima. E poi naturalmente il corpo, che quando è nudo ha una grammatica, racconta l’identità profonda della persona, viene prima del linguaggio. Stupisce che qualcuno da noi possa ancora pensare che il nudo serva per “provocazione”.
Come ti trovi a lavorare su testi che non scegli?
In passato mi è capitato di accettare commissioni, e forse in quei casi non sempre riesci ad andare fino in fondo.
E l’incontro con la lirica, come la Tosca?
In quel caso ho potuto lavorare benissimo, è stato un lavoro soddisfacente con i cantanti, col direttore, è stato un viaggio meraviglioso. Certo, mi sono state proposte altre regie di lirica, anche all’estero, ma di norma si agisce in un modo che io trovo inaccettabile, lavori per tre settimane, poi nell’ultima arrivano i cantanti. Una modalità così non m’interessa.
Vai spesso a teatro in Italia? Cosa pensi della nostra produzione?
In Italia facciamo un buon teatro, rispetto all’estero la vera differenza è la mancanza di mezzi. A me interessa molto seguire uno spettacolo e poi conoscere le ragioni del regista che lo ha concepito. Sono un buono spettatore, guardo molto teatro.
Cosa c’è all’estero che in Italia non abbiamo?
La libertà di fare errori. Gli artisti all’estero vanno fieri dei loro errori, perché sono i segnali di una ricerca. Noi invece tendiamo a creare confezioni accettabili, “funzionanti” rispetto alle esigenze del mercato.
E tuttavia sei riuscito ad osare un lavoro visionario come la trilogia su Medea, che ha ottenuto un successo straordinario e forse non prevedibile “a tavolino”.
La Medea è stato per me un passo cruciale, frutto di un bisogno estremo di uscire dalle imposizioni del mercato. Sentivo che rischiavo di perdere la mia necessità primaria di far teatro. Il fatto di rinchiudermi a Berlino e produrmi questo lavoro mi ha permesso di riazzerare e ripartire dal bisogno, da quello che serve.
Come direttore del Teatro Nuovo guarderai anche alle esperienze europee?
Non potrei fare altrimenti. Ho la fortuna di poter guardare tantissimo teatro all’estero. Credo sia importante ogni tanto uscire un po’ dal proprio orticello e gettare lo sguardo altrove. All’Europa come un grande Paese.